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Recensione di: Femmine contro Maschi

28/01/2011 | Recensioni |
Recensione di: Femmine contro Maschi

L’incipit del film cita: “Il maschio scelto dalla femmina non è colui che le sembra più attraente, ma colui che la disgusta meno”, parola di Charles Darwin. Con un cartello del genere, ci si aspetterebbe (e il condizionale è d’obbligo) un film il cui intento principale sia la rappresentazione senza fronzoli delle virtù inattaccabili delle donne. Fausto Brizzi nel dittico sui rapporti uomo donna, parte dall’assunto che essendo mondi diversi e, delle volte (o sempre!), inconciliabili, l’argomento necessiti di un approfondimento maggiore, scandagliando in maniera pedissequa prima l’uno poi l’altro universo; ma ciò non avviene. In “Femmine contro Maschi” il punto di vista capovolto, che nel primo “Maschi contro Femmine” vedeva le donne soccombere alle intemperanze maschili, per poi risorgere dalle ceneri di rapporti falliti, non ha il suo contraltare venusiano che darebbe, questa volta alle donne, il coltello dalla parte del manico. Anche nel secondo, e a questo punto inutile, episodio, ancora una volta viene rimarcata l’incapacità di crescita dei “cromosomi XY” e l’atavica pedanteria dei “cromosomi XX”. Tre sono le storie che si intrecciano: quella dell'androloga Anna (Luciana Littizzetto) e il benzinaio Piero (Emilio Solfrizzi), quella del bidello Rocco e l'impiegato Michele (Ficarra e Picone) e le rispettive mogli (Francesca Inaudi e Serena Autieri) e quella del chirurgo plastico Marcello (Claudio Bisio) e l'ex moglie Paola (Nancy Brilli). Niente di nuovo sul fronte occidentale, solo una “carrettata” (per citare una battuta del duo Ficarra e Picone) di luoghi comuni e cliché esasperanti, nei quali indubbiamente ci si riconosce, ma dei quali se ne può tranquillamente fare a meno. In realtà il film è una grossa buggerata operazione di marketing, perché le due parti possono essere viste anche in maniera inversa, data la mancanza di un filo conduttore che le lega. Non c’è continuità fra i due episodi, e i punti di vista affrontati sono talmente simili da far sembrare il film una miniserie per la tv in due puntate. Brizzi ama la commedia, e di questo non gliene si può fare in alcun modo una colpa, ma lo stile e la grammatica cinematografica impongono un’attenzione maggiore nella scrittura di soggetti che ironizzino e non sbeffeggino e che ci concedano una volta tanto (ormai è diventato un lusso destinato a pochi intimi!) la possibilità di pensare, e non di vivere l’esperienza di un film come atto passivo e inutilizzabile.

Serena Guidoni

 


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